I “fortunati”. I prigionieri italiani in Gran Bretagna, 1941-1946

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Al centro dell’intervento di Isabella Insolvibile è stato invece il tema della prigionia, e in particolare la condizione dei prigionieri italiani in Gran Bretagna fino al 1946.
Dalle ricerche di Insolvibile – già sfociate nella pubblicazione Wops. I prigionieri italiani in Gran Bretagna (1941-1946), Edizioni scientifiche italiane, Napoli 2012 – è emerso innanzitutto che quell’esperienza di cattività fu una delle migliori dal punto di vista materiale. I reclusi vennero sfamati, alloggiati, equipaggiati e curati in modo adeguato: in questo senso i prigionieri di guerra italiani furono “fortunati”. Questa loro “buona detenzione” era dipesa, oltre ad un sostanziale rispetto delle normative internazionali relative ai prigionieri di guerra, dalla necessità inglese di ottimizzare lo sfruttamento della loro manodopera, soprattutto nel campo dell’agricoltura. Insolvibile ha parlato per questo di “filantropia interessata”, di logica di utilizzazione.
Tuttavia la prigionia fu tanto buona dal punto di vista materiale, quanto devastante dal punto di vista psicologico, a causa della sua durata. Gli inglesi infatti trattennero i prigionieri-lavoratori italiani anche dopo l’8 settembre, fino alla conclusione dell’ennesimo raccolto nel 1945-46; ed anche i governi dell’Italia postfascista, a causa delle difficoltà dovute al reinserimento degli ex prigionieri e in ragione di quella che in fondo era una “buona detenzione”, non li reclamarono immediatamente. Se prima dell’armistizio la cattività era stata tutto sommato sopportabile, grazie alla convinzione che - presto o tardi - la guerra sarebbe finita, il periodo dopo il settembre 1943 fu per i reclusi il più lungo e doloroso.
L’8 settembre costituì uno spartiacque non solo dal punto di vista psicologico, ma anche per lo status giuridico degli italiani in cattività. Prima di quella data, infatti, lo status di prigionieri di guerra non fu mai messo in discussione: giacché gli italiani erano nemici a tutti gli effetti, anche la natura dei loro prigionieri era assodata e riconoscibile. Quella condizione giuridico-diplomatica, tuttavia, non venne modificata quando il Paese passò dalla parte degli alleati: gli italiani in Inghilterra sarebbero rimasti prigionieri di guerra anche in seguito alla proclamazione della “cobelligeranza” e (dal maggio 1944) della “cooperazione”: in sostanza fino al loro rimpatrio. La mancata modifica dello status è spiegabile in parte con le decisioni congiunte di Gran Bretagna e USA, per cui l’Italia avrebbe dovuto rimanere un paese pienamente sconfitto; in parte con l’assenso dato dal generale Badoglio ad «utilizzare prigionieri italiani in servizi non di combattimento, ma connessi con lo sforzo bellico». Sulle base di quell’ambigua dichiarazione infatti gli Alleati trovarono la base giuridica per introdurre la cooperazione su base volontaria. Alcuni cooperarono, perché speravano in un rimpatrio anticipato, altri no; certo è che quelle divisioni, fomentate anche dai detentori, contribuirono alla distruzione di quella fraterna “comunità di campo” che si era costruita in precedenza.
Insomma, i prigionieri italiani in Gran Bretagna rimasero tali fino a quando non acquisirono lo status di reduci: e tuttavia la loro condizione fu differente da quella dei reduci della Grande guerra. Il significato della loro esperienza fu adombrato dalle necessità immediate della nuova Italia, divisa tra molteplici anime e smaniosa di ricostruirsi inserendosi nella parte occidentale del mondo. Sulla lunga distanza la loro memoria si perse: in parte perché la loro non fu una storia eroica, facilmente collocabile nel contesto resistenziale; in parte perché affrontare le vicende di quei prigionieri avrebbe significato recuperare il discorso della responsabilità italiana in guerra, argomento ancora oggi affrontato come un “tabù” nella memoria nazionale.









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